“Abnorme è il giudizio”: la Cassazione contro la deresponsabilizzazione ideologica del datore di lavoro.
Nota a Cass. pen.
Data:
19 Giugno 2025

Nota a Cass. pen., sez. IV, 12 giugno 2025 (dep. 17 giugno 2025), n. 22843 di Graziano Giuseppe Arancio – Avvocato
1. Una sentenza che dice più di quanto appare
Chi si ferma alla superficie della motivazione potrebbe derubricare la decisione della IV Sezione a ordinario esercizio del controllo sulla motivazione. Eppure, il valore di questa sentenza è ben più profondo: essa disinnesca un dispositivo retorico e ideologico che negli ultimi anni è stato usato, con crescente frequenza, per deresponsabilizzare i datori di lavoro dagli infortuni gravi. Un dispositivo che ha un nome preciso: “abnormità” della condotta del lavoratore.
Con la sentenza n. 22843/2025, la Suprema Corte sancisce che la categoria dell’abnormità non è un jolly difensivo, ma un concetto tecnico che, per poter interrompere il nesso causale tra omissione datoriale ed evento lesivo, deve avere connotazioni di radicale estraneità rispetto alla sfera del rischio governato. E tale valutazione non può essere frutto di una lettura ideologicamente selettiva del fatto.
2. La parabola distorsiva dell’“abnormità”: da eccezione a formula standard
L’abnormità nasce in giurisprudenza come criterio residuale, destinato a circoscrivere l’imputazione del fatto quando la condotta del lavoratore risulta, nella sostanza, imprevedibile, autonoma, estranea. Ma nella prassi, a partire dalla metà degli anni 2010, si è assistito a una mutazione preoccupante: l’abnormità è divenuta una scorciatoia per assolvere il datore, anche quando la condotta del lavoratore era perfettamente inserita nel contesto organizzativo dell’impresa.
Il caso affrontato dalla Corte ne è un esempio emblematico: operaio assunto proprio il giorno dell’incidente, non formato, non informato, assegnato a una postazione dove si opera con una macchina troncatrice. Eppure, il Tribunale assolve il datore sulla base della presunta “autonomia” e “imprudenza” del lavoratore, che avrebbe azionato la macchina in assenza del collega esperto.
Qui la Corte segnala il punto critico: il giudice di merito ha trasformato un difetto sistemico (mancata formazione) in un problema soggettivo del lavoratore. In questa prospettiva rovesciata, l’incolpevole è colpevolizzato, e il garante è liberato da ogni dovere.
3. Oltre la dogmatica: la questione è politica
Il passaggio più importante della sentenza non è di diritto, ma di metodo. La Cassazione non si limita a censurare un vizio logico, ma ne coglie il significato sistemico: il giudizio del Tribunale è contraddittorio perché assume come “interruttiva” una condotta che si colloca all’interno della stessa area di rischio che l’omissione formativa del datore ha contribuito a generare. In tal senso, la Corte ribadisce che la responsabilità del datore non è un fardello assoluto, ma è tanto più pregnante quanto più il rischio è noto, oggettivo, grave e governabile. L’uso di una macchina pericolosa da parte di un neoassunto non formato non è un evento improbabile: è l’effetto quasi necessario di un’organizzazione del lavoro carente. Non si può quindi fingere neutralità.
Decidere quando una condotta è “abnorme” significa scegliere a chi attribuire il fallimento organizzativo. Se si afferma che il lavoratore ha agito “di testa sua”, allora ogni omissione preventiva diventa irrilevante. Ma se, come chiarisce la Corte, quella condotta era prevedibile, allora il datore non può invocare l’imprevedibilità per salvarsi.
Questo non è solo un tema giuridico. È una questione di politica giudiziaria e di equilibrio costituzionale tra lavoro e impresa.
4. Prevenzione e prevedibilità: un nuovo equilibrio
L’evoluzione giurisprudenziale, dal “modello iperprotettivo” al “modello collaborativo”, ha indotto qualcuno a pensare che le responsabilità dei datori siano oggi relative, flessibili, quasi “negoziabili”. La sentenza in commento riafferma invece un punto fermo: la collaborazione presuppone che tutti gli attori del sistema siano messi in condizione di agire consapevolmente. Se il lavoratore non è formato, non si può parlare di vera cooperazione.
Non è sufficiente che il rischio sia noto. Occorre che sia governato. E governarlo significa formare, istruire, presidiare. Diversamente, si apre la porta a una nuova forma di deresponsabilizzazione sistemica: quella che invoca l’“errore umano” per occultare l’errore organizzativo.
5. Osservazioni: la responsabilità come presidio di civiltà
L’arresto giurisprudenziale in oggetto non è importante solo perché annulla una pronuncia contraddittoria. È importante perché smaschera una tentazione culturale: quella di ridurre l’infortunio sul lavoro a un incidente individuale, piuttosto che leggerlo come un fallimento collettivo di sicurezza.
In un’epoca in cui le tutele del lavoro sono spesso oggetto di erosione sistematica, la giurisprudenza penale resta uno dei pochi presidi effettivi. Ma solo se è capace di resistere alle scorciatoie, alle semplificazioni, agli alibi. La categoria dell’“abnormità” ha un senso solo se resta rigorosa, eccezionale, ancorata alla realtà e non trasformata in grimaldello concettuale. Se tutto è abnorme, allora nulla è responsabilità. E se nulla è responsabilità, allora il diritto penale del lavoro è un esercizio di retorica.