Quando la suggestione basta alla condanna: declino del principio di colpevolezza.

Nota a sentenza Cass. Pen.

Data:
16 Giugno 2025

Quando la suggestione basta alla condanna: declino del principio di colpevolezza.

Nota a sentenza Cass. Pen., sez. III, n. 22075 del 13 marzo 2025 (dep. 12 giugno 2025)

La sentenza n. 22075 del 2025 della Terza Sezione penale rappresenta l’ennesimo segnale di un orientamento giurisprudenziale che tende a slittare da una responsabilità penale fondata sull’offensività concreta a una logica di colpevolezza presunta.

È indubbio che la tutela dei minori, soprattutto in contesti di uso di sostanze stupefacenti, imponga un approccio rigoroso. Ma è proprio l’ampiezza della protezione richiesta dal legislatore che impone al giudice un’interpretazione proporzionata, fondata su una verifica seria del nesso causale psichico tra la condotta dell’agente e la decisione del minore di assumere la sostanza.

La decisione in commento, invece, aderisce a una nozione di “induzione” estremamente lata, al punto da includervi anche il semplice rafforzamento di una volontà già formata, purché riconducibile – anche in modo indiretto – a un’influenza dell’imputato. Scompare così la distinzione tra chi plasma la volontà altrui e chi si limita a non opporsi o a condividere un momento.

La Corte pare affermare che anche un minore tossicodipendente possa essere “indotto” all’uso da chi, ad esempio, si limita a procurargli la sostanza o a consumarla con lui. Ma così facendo si dissolve la differenza – che nel diritto penale non può essere trascurata – tra condotta causalmente influente e condotta moralmente riprovevole.

È in gioco il cuore della funzione garantista del principio di legalità: l’induzione non può essere surrogata da una “colpevolezza per contiguità”, né dalla percezione che certi comportamenti “dovrebbero” essere puniti perché socialmente sgraditi.

Il pericolo è evidente: a forza di valorizzare il bene giuridico tutelato, si finisce per scivolare verso forme di responsabilità penale da contesto, in cui è punito non ciò che si causa, ma ciò che si rappresenta.

Il tutto si complica se si considera che il giudizio di legittimità, nel caso di specie, si arresta di fronte alla doppia conforme: il ricorrente denuncia un vizio di motivazione sulla prova del nesso causale, ma la Cassazione si limita a dichiarare “non sindacabile” la valutazione di merito.

Questa scelta solleva una questione di principio. Il diritto alla prova, nella sua proiezione in sede di legittimità, non può essere sacrificato sull’altare della stabilità delle decisioni, soprattutto in un ambito dove il confine tra induzione e consenso, tra persuasione e adesione, è tutt’altro che chiaro.

In conclusione, la sentenza, sebbene “formalmente” corretta sul piano della continuità con i precedenti, conferma una tendenza a trattare l’induzione come una categoria elastica, piegata alle esigenze punitive, più che calibrata sull’effettiva alterazione della volontà. Una torsione che può anche produrre effetti simbolicamente rassicuranti, ma che in prospettiva svuota di contenuto la colpevolezza come criterio di imputazione soggettiva.

Graziano Giuseppe Arancio, Avvocato del Foro di Gela