Abrogare non è dimenticare. La Corte e la fine dell’abuso d’ufficio: politica criminale, diritto penale e Costituzione a confronto.

Nota alla sentenza n. 95/2025 della Corte Costituzionale La  Corte costituzionale, con la sentenza n.

Data:
5 Luglio 2025

Abrogare non è dimenticare. La Corte e la fine dell’abuso d’ufficio: politica criminale, diritto penale e Costituzione a confronto.

Nota alla sentenza n. 95/2025 della Corte Costituzionale

La  Corte costituzionale, con la sentenza n. 95 del 2025, sul reato di abuso d’ufficio non si limita a risolvere una questione di legittimità formale, segna un passaggio di fase nel rapporto tra politica criminale e diritto costituzionale. La Suprema interprete della Carta Costituzionale, nel rigettare le censure relative all’abrogazione dell’art. 323 c.p., ha riaffermato la centralità della riserva di legge e i limiti invalicabili del proprio sindacato. Ma il vero punto è un altro: l’abrogazione dell’abuso d’ufficio non è solo un’operazione normativa. È una dichiarazione politica.

1. Il diritto penale non è più terreno neutro

Nel giudicare non fondate le questioni sollevate, il giudice delle leggi si è posto come presidio di legalità formale, evitando derive sostitutive del ruolo parlamentare. Lo ha fatto ricordando che l’art. 25, comma 2, Cost., vieta qualsiasi riespansione giudiziale della sfera penale. Ma proprio in questo rigore – che pure è da condividere – emerge con chiarezza la natura eminentemente politica della scelta abrogativa: togliere di mezzo l’abuso d’ufficio significa ridefinire le priorità del sistema repressivo, alleggerire il controllo penale sulle condotte amministrative e, soprattutto, rispondere a una certa narrazione pubblica che dipingeva il reato come “ombra paralizzante” della burocrazia.

In realtà, quel reato – pur farraginoso e discusso – costituiva l’ultimo presidio penale contro l’esercizio distorto del potere pubblico fuori dai casi di corruzione o concussione. La sua eliminazione, per via legislativa, non è stata motivata da una riflessione garantista, ma da una scelta di campo: meno vincoli, meno sanzioni, meno controllo.

2. “Norme penali di favore” e il rischio dell’irresponsabilità

La Corte Costituzionale ha escluso che una disposizione abrogativa possa essere oggetto di sindacato in malam partem. Ma non ha ignorato – con finezza – che il vuoto normativo lascia senza presidio penale interi segmenti dell’azione amministrativa. A chi denuncia il vuoto, si risponde che si tratta di una “norma penale di favore” e quindi insindacabile. Ma ciò che oggi viene congedato come favore, domani rischia di diventare impunità sistemica.

Sostenere che il raffronto debba avvenire solo tra norme compresenti nell’ordinamento è tecnicamente corretto. Ma resta il nodo politico: chi garantisce che l’assenza della norma non produca effetti distorsivi sulla selezione penale? La Custode della Costituzione, con coerenza, affida la risposta al legislatore. Ma nel farlo ci ricorda che la responsabilità per l’indebolimento degli strumenti di contrasto alla mala amministrazione non è tecnica, ma politica.

3. La UNCAC: un obbligo debole, ma non indifferente

Molti avevano invocato gli obblighi derivanti dalla Convenzione ONU contro la corruzione per fondare l’illegittimità dell’abrogazione. La Corte risponde con nettezza: l’art. 19 impone solo un obbligo di “considerazione” e non una criminalizzazione necessaria. Ed è vero: la lettera della Convenzione non vincola in modo cogente. Ma resta il dato sostanziale: abrogare l’abuso d’ufficio significa porsi in controtendenza rispetto all’indirizzo internazionale di rafforzamento del contrasto alla corruzione pubblica.

Che l’obbligo sia procedurale e non repressivo è un dato giuridico. Che il disarmo repressivo sia una scelta deliberata, è un fatto politico. La Corte non poteva fare altro che prenderne atto, ma l’ordinamento non può smettere di interrogarsi sulla coerenza di una politica criminale che si ritrae proprio nei settori in cui la domanda sociale di tutela cresce.

4. Una sentenza coerente, ma disarmante

Il vero merito della pronuncia non sta tanto nell’esito – prevedibile – quanto nella chiarezza metodologica: il giudice costituzionale non può surrogare il legislatore, anche quando questi sceglie di arretrare. Non può imporre incriminazioni, né valutare l’opportunità politico-criminale di mantenerle. Tuttavia, il rischio è che questa coerenza istituzionale si trasformi in rassegnazione costituzionale, in una forma di autoesclusione del giudice dal dibattito sul senso e sui fini del diritto penale.

Il diritto penale, però, non è (solo) tecnica: è potere. E quando il potere penale viene disattivato per scelta, la Costituzione non può restare muta. La Corte – e qui sta il suo equilibrio – parla poco, ma chiama la politica alle sue responsabilità. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio non è solo una questione normativa: è un banco di prova per capire se la legalità penale può ancora dirsi espressione della legalità costituzionale.

5. Osservazioni

La sentenza n. 95/2025, dunque, offre una lezione di metodo, ma apre un varco di sostanza. La Corte Costituzionale  resta nel suo ruolo: non giudica la bontà delle politiche, ma ne tutela la cornice. E tuttavia, mai come oggi, il confine tra diritto e politica si mostra sottile. Non tutto ciò che è lecito è giusto. E non tutto ciò che è costituzionalmente corretto è socialmente sostenibile.

Abrogare l’abuso d’ufficio è stato lecito. Ma è stato anche giusto? Tocca al legislatore rispondere. E ai giuristi, non smettere di chiedere.

  • Avv. Graziano Giuseppe Arancio