L’urgenza non giustifica l’ingiustizia: la Corte Costituzionale e la crisi della legalità penitenziaria. Nota a sent. n. 78/2025 Corte Costituzionale

La sentenza n. 78 del 3 giugno 2025 della Corte costituzionale non si limita a dichiarare la non costituzionalità di una disposizione normativa: prende posizione contro un’intera concezione dell’esecuzione penale.

Data:
6 Giugno 2025

L’urgenza non giustifica l’ingiustizia: la Corte Costituzionale e la crisi della legalità penitenziaria.  Nota  a sent. n. 78/2025 Corte Costituzionale

La sentenza n. 78 del 3 giugno 2025 della Corte costituzionale non si limita a dichiarare la non costituzionalità di una disposizione normativa: prende posizione contro un’intera concezione dell’esecuzione penale. E lo fa riaffermando un principio imprescindibile: il diritto di difesa è un fondamento costituzionale (art. 24 Cost.), non una deroga. Nel contesto dei permessi di necessità, è il tempo stesso a diventare il campo di tensione tra autorità amministrativa e garanzie giurisdizionali. La Consulta rileva che un termine di ventiquattro ore per proporre reclamo è strutturalmente incompatibile con l’effettività della tutela difensiva.

Quella che il giudice delle leggi ha rimosso non è una semplice stortura tecnica: è l’espressione concreta di una vera e propria ideologia dell’urgenza punitiva. Un modello che sacrifica la difesa sull’altare dell’efficienza e della semplificazione amministrativa. La Corte Costituzionale interviene allora come presidio di civiltà, restituendo alla pena una effettiva giurisdizione, entro cui la difesa possa trovare uno spazio di patrocinio concreto e non meramente simbolico.

Il reclamo oggetto della pronuncia riguardava il diniego di una richiesta urgente e fondata, avanzata da un detenuto, di potersi recare presso la sorella in condizioni critiche di salute. Il reclamo fu proposto immediatamente, ma in forma interlocutoria: solo dieci giorni più tardi il difensore, ottenuta copia degli atti, poté articolare i motivi dell’impugnazione. L’art. 30-bis, comma 3, ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), imponeva tuttavia un termine perentorio di ventiquattro ore, con conseguente inammissibilità del reclamo. L’effetto concreto di tale assetto è l’esclusione sostanziale della difesa tecnica in un momento decisivo per la persona detenuta.

Richiamando la propria sentenza n. 113/2020 (in materia di permessi premio), la Consulta estende la ratio decidendi ai permessi di necessità, sottolineando come l’urgenza dell’istanza non possa giustificare una compressione del diritto di difesa fino al punto da renderlo illusorio. Anzi, proprio l’urgenza impone un maggiore rigore nella tutela dei diritti fondamentali. Il termine di quindici giorni previsto per il reclamo giurisdizionale dall’art. 35-bis l. n. 354/1975 viene assunto come parametro di riferimento sistemico e costituzionalmente compatibile.

Particolarmente rilevante è la scelta della Corte di non intervenire sul termine previsto per il pubblico ministero, che resta fissato in ventiquattro ore. Tale asimmetria è coerente con il fine di evitare effetti pregiudizievoli per il detenuto, quali la sospensione dell’esecuzione del permesso in caso di impugnazione da parte del PM. La tutela costituzionale è qui calibrata sulla posizione del soggetto più debole e sulla necessità di garantire l’efficacia della misura autorizzata. Anche qui, la Consulta privilegia una tutela differenziata e non meramente simmetrica, mostrando maturità costituzionale e attenzione al bilanciamento tra esigenze di efficienza e salvaguardia dei diritti fondamentali.

La Corte, ancora una volta, invita il legislatore a una revisione complessiva della disciplina, superando interventi frammentari e populisti, restituendo coerenza al sistema delle impugnazioni in ambito penitenziario. Ma il suo è un invito che suona sempre più come un monito: l’inazione del Parlamento rischia di diventare non più solo un ritardo, ma una rinuncia alla funzione di custodia dei diritti fondamentali. La giurisdizione costituzionale, ancora una volta, è costretta ad esercitare una supplenza funzionale, affermando il primato delle garanzie anche dove la politica abdica.

La sentenza in commento, dunque, è una conquista e una denuncia. Conquista, perché restituisce effettività alla difesa nel momento più vulnerabile del detenuto. Denuncia, perché rivela l’insufficienza strutturale dell’attuale assetto normativo penitenziario. Non si tratta solo di correggere un termine: si tratta di rimettere in discussione l’intero paradigma del tempo penitenziario, troppo spesso governato da logiche estranee al diritto.

Ricollocando il detenuto al centro della legalità costituzionale, il giudice delle leggi ci ricorda che il tempo della pena non è tempo sospeso. È un tempo giuridico, giurisdizionale, rieducativo (non vendicativo) che preservi la dignità della persona e il rispetto delle garanzie difensive. In questo senso, il controllo giurisdizionale si conferma misura della tenuta democratica dell’esecuzione penale.

  • Graziano Giuseppe Arancio, Avvocato del Foro di Gela.